Il trono e l’altare. Ruolo e funzione del nazionalismo religioso

La percezione di identità nazionale in questi decenni è cambiata. Il fenomeno è del tutto evidente per molti di coloro che sono stati coinvolti nei flussi migratori, sia su scala continentale che su dimensione regionale: il concetto di nazionalità non è identificato nel territorio di provenienza, ma coincide con quello di comunità di condivisione culturale. In questo contesto nascono e si sviluppano aggregazioni che fanno riferimento alla cultura e spesso, anzi preferibilmente, alla religione. La religione offre ai singoli il vantaggio di entrare a far parte di un insieme organizzato e portatore di valori condivisi. Questo spiega, almeno in parte, il grande fascino che il fondamentalismo, di qualsiasi tendenza, esercita su una sempre crescente massa di persone. Non sempre una nazione o, meglio, le sue classi dirigenti, vengono politicamente riconosciute come rappresentative, anzi spesso sono percepite come nemiche, mentre la religione appare spesso come l’istituzione più legittima, l’unica capace di offrire modelli di comportamento validi ed alternativi e soprattutto egualitari, comunitari. Il messaggio che si è tutti figli di uno stesso dio è un potente appello egualitario, in gradi di realizzare il mito della “nazione comunitaria”, una nazione senza territorio ma con unica fede.

La religione con la sua forma organizzativa offre un cosmo del sociale, un reticolo di luoghi sacri e spazi rituali, ma anche di centri di comunità, associazioni, scuole, ospedali e opere pie. E questo è un aspetto molto concreto.

Il nazionalismo religioso va oltre i confini di un territorio, arriva a prendere la forma di uno scontro di civiltà, con il costituirsi di grandi aggregazioni che fanno riferimento, nella costruzione della propria appartenenza identitaria, non allo stato nazionale, ma alla cultura e alla religione.

La religione ha infatti offerto un forte collante all’identità collettiva, soprattutto nel sud del mondo, tanto più che ha permesso di riconsolidare le comunità contro l’offensiva culturale del capitalismo occidentale, identificato con l’ateismo. Ad esempio Hasan al-Banna, fondatore della Fratellanza Musulmana, individuava nel capitalismo importato dagli occidentali la «distruzione dell’Islam» grazie all’imposizione di una «vita materialistica, con i suoi tratti corruttori ed i suoi germi mortali». Il nazionalismo religioso estende la logica istituzionale della religione e può apparire l’elemento di coagulo di fronte alla frantumazione delle tradizionali appartenenze nazionali, ricomponendo e ridisegnando confini e territori che corrispondono alla geografia della diffusione delle comunità dei fedeli. I campanili, i minareti o le sinagoghe segnano il “limes” delle nuove nazionalità in cui la religione offre un forte collante all’identità collettiva. Tutto ciò contribuisce a spiegare l’importanza che hanno assunto nell’immaginario collettivo, dal punto di vista del nazionalismo religioso, i luoghi sacri. Non a caso il conflitto israelo-palestinese ha un suo focolaio tradizionale nella Spianata delle Moschee a Gerusalemme, e di fatto la città è anche un nodo gordiano del nazionalismo religioso. Se si deve indicare l’autentico confine tra stato sionista e comunità palestinese, più che la striscia di Gaza, la si deve indicare nelle poche centinaia di metri della spianata delle moschee di Gerusalemme est, e del muro del pianto, dove si consuma un conflitto che si vuole definire politico, ma che affonda le radici in qualcosa che da secoli segna un profondo solco tra civiltà.

Il ruolo dei luoghi sacri come elemento di nazionalismo è evidente. Pensiamo, per esempio, al Tempio d’Oro di Amritsar, dove i nazionalisti Sikh, volendo ristabilire il loro regno nel Punjab, hanno insediato un governo provvisorio, preso poi d’assalto dalle truppe indiane nel 1984 con più di 2.000 morti. In India i nazionalisti Hindu hanno vinto le elezioni nel 1992 con la promessa di distruggere la moschea di Babri ad Ayodhya, sorta secondo loro sul sacro sito del Ram Janmabhoomi, il luogo di nascita del re Rama, il primo mitico sovrano che unificò l’India.

Non va inoltre trascurato che la religione prende spesso una specifica forma di nazionalismo etno-culturale, tale da comportare anche l’uccisione o l’espulsione di comunità differenti, la costituzione di masse che rispondono a leader unici e carismatici, l’illusione di dar vita a un’unica comunità in cui non esistano differenze, tutti omologati nella stessa religione. Ne sono un chiaro esempio gli eccidi e le violenze operate dall’Isis nei confronti delle comunità sciite, yazide, cristiane o le pulizie etniche nei confronti delle minoranze alauite siriane: si tratta di operazioni che rispondono alle stesse ragioni che hanno portato all’eccidio dei musulmani in Bosnia, ovvero eliminare dai territori della nazione tutti coloro che non condividono la stessa identità etno-culturale religiosa.

Il nazionalismo religioso da elemento di coagulo è anche in grado di produrre trasformazioni che possono portare alla creazione di uno stato confessionale. Ne è esempio il mito della grande Israele, nata come nazione laica, che si è trasformata in uno stato confessionale; lo stesso vale per i palestinesi spostatisi su posizioni di integralismo religioso. Ma ciò sta avvenendo anche in India, dove al nazionalismo di Gandhi e di Nehru e alla loro concezione laica dello stato, si è sostituita almeno in parte, una visione religiosa sancita dalla salita al potere di partiti induisti. Precursore di questa tendenza è stato l’Iran, dove il Khomeinismo ha significato il ritorno a una concezione teocratica dello Stato, in cui non si parla di cittadinanza, ma di appartenenza religiosa, in cui l’applicazione delle leggi coraniche detta norme di convivenza e sostituisce il diritto civile.

I nazionalismi religiosi si sono sviluppati nel momento in cui le economie sono divenute sempre meno nazionali, condizionate da reti finanziarie e imprenditrici globali, incapaci di attuare in piena indipendenza politiche economiche e sociali, e in cui perfino le valute sono sfuggite al controllo dello stato. Il sentimento diffuso di anti-politica che vivono le nostre società è anche fortemente legato alla convinzione che la politica nazionale sia imbelle rispetto ai grandi interessi globali.

Il nazionalismo religioso è stata la “soluzione”, in particolare, per quei Paesi che provenivano da dissoluzioni di unità imperiali o da domini coloniali e che si sono ritrovati con un modello nazionale che poco aveva a che vedere con le loro società di stampo tribale o comunitario, in cui convivevano etnie, religioni e culture diverse. La religione ha allora offerto un forte collante all’identità collettiva ed ha in questo modo cementato la nazione, facendo coincidere il confine territoriale non più con la cittadinanza o con l’etnia, ma con la comune fede religiosa. In questo modo, si ripropongono le caratteristiche proprie del nazionalismo, attraverso l’opera di definizione del noi in contrapposizione all’altro. Se il pangermanismo e il panslavismo definivano l’appartenenza in termini di sangue e di etnie, i nazionalismi religiosi lo fanno attraverso la divisione tra sacro e profano, tra bene e male. In questo modo definiscono i confini che separano gli uni dagli altri, i fedeli dai miscredenti, i musulmani dai cristiani e così via. Non importa che si viva tutti insieme sullo stesso territorio e che si possa comunemente operare per il bene della propria collettività. E così l’Isis, pur prefiggendosi di dar vita a uno stato con propri confini, proprie istituzioni e simboli di riconoscimento, ha cercato di assorbire persone e cittadini di altri paesi in un comune disegno politico e in una comune appartenenza che superava i confini ed era globale, poiché dall’America all’Africa, dall’Europa all’Asia, ovunque ci fossero sunniti, c’era il richiamo del profeta e l’invito all’azione per la patria comune. Egualmente Osama Bin Laden operava in termini “globali”, immaginava una Jihad mondiale rivolta contro ogni tipo di infedele.

La religione insomma crea legami trasversali, contribuendo all’affermazione dell’identità nazionale come identità religiosa.

D’altra parte nel corso della storia vi è sempre stato uno scambio profondo tra nazione e religione: il nazionalcattolicesimo spagnolo ne è l’esempio più lampante e la controrivoluzione franchista fa un paradigma della politicizzazione del sacro e contemporaneamente della sacralizzazione della politica. L’uso indistinto ed ambivalente, da parte di Franco e della Chiesa, dei luoghi sacri e delle liturgie per “santificare” i gerarchi falangisti e, viceversa,  l’elevazione a “martiri” dei religiosi giustiziati dai miliziani,  non sono solo l’epilogo di un triennio rivoluzionario e di una controrivoluzione, ma la fine di un lungo percorso storico che aveva preso avvio all’epoca della prima Crociata, ovvero l’unificazione della Spagna con la cacciata dei mori dalla penisola iberica, e l’unità politica ottenuta nel segno della croce, così come la conquista dell’impero delle “nuove Indie”. Allora si saldò per sempre l’altare con il trono, facendo dell’impero spagnolo il campione del nazionalcattolicesimo che, con l’intreccio delle dinastie e la presenza della Chiesa cattolica, governò buona parte dell’Europa per circa tre secoli.

Daniele Ratti

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